TOLLERANZA E DIRITTI
Nel corso dei secoli la parola tolleranza è passata attraverso una serie di significati con connotazioni più o meno positive.
Calvino giustificò la sua intransigente posizione nel suo testo Defensio orthodoxae fidei: l’eresia equivale ad una bestemmia contro la gloria e l’onore di Dio, quindi tollerarla significherebbe diventarne complice.
Castellion (1515-1563). Nella sua opera fondamentale, De haereticis an sint persequendi (1554), pubblicò un antologia di testi a favore della tolleranza non solo dei Padri della chiesa, di Erasmo, degli Anabattisti, ma anche delle prime concezioni moderate di Calvino e di Lutero. In essa è evidente l’influsso della teoria erasmiana, secondo cui il cristianesimo è innanzitutto impegno di vita morale, pratica di carità e pace. Sul piano dottrinale si afferma che non vi è nessuno in terra in grado di fungere da giudice nelle contese di fede; in particolare la difesa dell’ortodossia non potrà mai giustificare un’azione immorale quale l’omicidio. Si introduce così l’idea del rispetto della dignità dell’uomo: “Uccidere un uomo non è difendere una dottrina; è uccidere un uomo”.
Jean Bodin (1530-1596) propugna la tesi che afferma l’estraneità dello stato nei conflitti religiosi e propone la tolleranza verso i riformati in cambio dell’obbedienza civile. Il principio di tolleranza religiosa ha il merito di aver anticipato quello della libertà politica: fazioni contrastanti sono legittime se rientrano in un sistema di regole da tutti convenute.
In ambito politico, soprattutto in Francia, il dibattito sulla tolleranza si afferma nell’età delle guerre di religione del secondo Cinquecento. I principali fautori furono gli esponenti del “partito dei politici”: essi erano ostili al cattolicesimo fanatico-filoasburgico e sostennero che il problema religioso poteva essere risolto solo all’interno di uno stato potente e accentrato. I Politici seguono la via dell’irenismo religioso (eirène = pace). Un altro passo verso la tolleranza religiosa fu compiuto con l’Editto di Nantes (1598), grazie al quale venne riconosciuta la libertà religiosa e di culto agli ugonotti francesi. Questo periodo è infine caratterizzato da un’ultima teoria religiosa connessa alla politica: la tolleranza religiosa è “instrumentum regni”, uno strumento del sovrano per ricompattare lo stato, una concessione della corona accordata ad alcuni gruppi sociali. Tali idee saranno criticate dai calvinisti, che contesteranno la forte autorità del monarca in campo sia politico che religioso, a favore di una sovranità popolare che regoli tutti gli ambiti della società, inclusi i difficili rapporti fra confessioni differenti.
John Locke (1632-1704) nella sua Epistola de Tolerantia (1689) definisce i doveri di chiesa, privati, magistratura ecclesiastica e civile verso la tolleranza: la chiesa si limiterà a scomunicare chi non segue la sua dottrina, senza arrecargli alcun danno materiale; nessun privato può danneggiare chi si professi estraneo alla sua religione; Chiesa e stato sono due istituzioni diverse e separate; la magistratura civile deve astenersi da ingerenze nella sfera religiosa degli individui. Il principio di tolleranza è sancito nella Dichiarazione di indipendenza (1776) e nella successiva Costituzione federale degli Stati Uniti d’America (1791), anche se trova la sua prima formulazione già alcuni anni addietro col Traité sur la tolérance (1763) di Voltaire.
I filosofi e gli scrittori dell’Illuminismo, soprattutto Voltaire e Lessing, hanno fortemente promosso la tolleranza religiosa, e la loro influenza ha fortemente contribuito alla formazione delle società occidentali.
D’altro canto, l’aforisma anonimo “c’è una sola cosa che non posso tollerare – l’intolleranza” mostra che anche la tolleranza ha i suoi limiti.
Voltaire comprese alla radice la causa principale dell’intolleranza: “Perché un governo non abbia il diritto di punire gli errori degli uomini, è necessario che questi errori non siano delitti, essi sono delitti solo quando turbano la società: e la turbano non appena ispirano il fanatismo. E’ necessario dunque che gli uomini comincino con il non essere fanatici per meritare la tolleranza”.
“…La Chiesa, i giansenisti, i francescani, i gesuiti, i luterani, i calvinisti avranno un bel dire: ‘Noi seguiamo i moti della nostra coscienza, è meglio obbedire a Dio che agli uomini, siamo il vero gregge, dobbiamo sterminare i lupi!’ …E’ evidente che allora sono lupi anche loro. ‘In tutti quei casi in cui il fanatismo estremo viola il diritto alla vita, il magistrato deve punire l’omicidio, anche se commesso con buone intenzioni’ “.
La tolleranza si svincola sempre più dalla problematica religiosa nelle teorie contemporanee di Wolff e Marcuse. Secondo Wolff (1868-1943) non si può parlare di piena tolleranza nella società moderna americana, perché i diritti sono riconosciuti ai gruppi e alle corporazioni, non agli individui che se ne distaccano; ad esempio, un lavoratore che non si allinea alle decisioni del sindacato che lo rappresenta, perde ogni potere di contrattazione sociale.
Marcuse (1898-1979) critica il modello di tolleranza delle democrazie avanzate; esse tendono a conservare le loro strutture e non seguono fino in fondo il principio di tolleranza che, applicato fino alle sue estreme conseguenze, presenterebbe invece una natura sovversiva e fortemente liberale. Sugli sviluppi moderni del principio di tolleranza si può da ultimo citare la posizione della Chiesa: fino alla prima metà del novecento, essa accetta la tolleranza, ma come un atteggiamento pratico, rivolto per opportunismo verso l’errore e il male; solo in seguito, dopo il Concilio Vaticano II (1962-65) e i pontificati di Giovanni XXIII e Paolo VI, la Chiesa si è avvicinata ad una concezione che riconosce la piena dignità dell’individuo, presente anche nell’errare.
Non si deve tuttavia credere, da quanto sin qui detto, che non esistano limiti alla tolleranza e alla libertà di opinione. Come si legge nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), “… nessuno deve essere disturbato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla legge”.
Nel contesto novecentesco il problema dei limiti posti alla tolleranza ha nuovamente un ruolo centrale, stimolando, con Karl Popper (1902-1994), una valorizzazione della reciprocità per quanto attiene il piano politico e la possibilità della critica e del confronto nel progresso scientifico.
La parola tolleranza non si trova in nessun codice, né nel codice civile, né nel codice penale, né tantomeno nella Costituzione. Non c’è una legge che preveda, esplicitamente un diritto/dovere alla tolleranza.
Guardando sul vocabolario della lingua Italiana, la parola tolleranza ha il significato di capacità fisica o spirituale di sopportare. La parola sopportare a sua volta significa reggere e sostenere un peso.
La connotazione del termine non appare perciò positiva a prima vista. La tolleranza, come afferma Wolfgang Goethe, dovrebbe essere una fase di passaggio; dovrebbe portare al rispetto: Tollerare è offendere
Nel linguaggio ingegneristico la tolleranza esprime la deviazione massima ammissibile di un attributo di un oggetto rispetto ad un valore prefissato. Il concetto nasce dal fatto che le persone e i materiali non sono perfetti.
Rispetto al concetto di tolleranza, l’attributo in esame non viene quindi classificato come più o meno preciso, ma piuttosto come in tolleranza (ossia rientrante nei limiti stabiliti) o fuori tolleranza (non rientrante).
Il concetto di tolleranza nasce in pratica con la produzione in serie e, quindi, nel nostro caso con il fenomeno della globalizzazione, l’essere umano è talvolta fuori tolleranza, perché non perfetto, perciò come tale non sempre in grado di accettare quello che non rientra nei limiti delle sue conoscenze.
Quello che si verifica quando ci comportiamo in modo intollerante è paragonabile a ciò che si verifica in caso di intolleranze alimentari: esse derivano dall’impossibilità dell’organismo di digerire un dato alimento, a causa di difetti metabolici che possono essere causati dallo stile di vita o da stati emotivi alterati, sono riconducibili all’accumulo nel tempo delle sostanze responsabili di ipersensibilità, fino ad un livello che ad un certo punto supera la “dose soglia”.
Nello stesso modo l’intolleranza tra le persone si manifesta allorché si supera la soglia di sopportazione e non si ammette più che altri professino differenti principi religiosi, etici, politici.
In senso stretto, sulla base delle considerazioni svolte, la tolleranza non è una virtù, ma un limite, poiché ha come oggetto ciò che viene tollerato per necessità variamente motivate e fondate che non portano mai ad un’autentica e piena affermazione di quanto è tollerato.
Ecco spiegato il motivo per cui non la legge scritta, ma solo la legge di natura può dettare principi che a questo punto sono di rispetto e non di tolleranza.
La parola tolleranza ha, tuttavia, anche una funzione positiva: permette infatti che esista una pluralità di posizioni e quindi di opinioni in tutti i campi dove essa sia esercitata. Contribuisce perciò alla ricerca della verità, alla quale si rapporta in modo dialettico, è un termine sociologico, culturale e religioso relativo alla capacità collettiva ed individuale di vivere pacificamente con coloro che credono ed agiscono in maniera diversa dalla propria. Nel senso più genuinamente filosofico, la tolleranza non nasce dall’atteggiamento negativo basato sulla convinzione che non esistano alternative ma, al contrario, sull’accettazione di ciò che è diverso in quanto parte del tutto: l’altro uomo, lo straniero, va accolto ed ascoltato, e spesso egli si rivela foriero di novità, di buon consiglio, di verità.
I sistemi autoritari si fondano, sull’intolleranza. Ricordiamo a questo proposito il nazismo, il delirio di Hitler, l’invidia per quello che il popolo ebreo riesce a fare in Germania, diventando la leadership dell’economia porta ad un sentimento che lungi dall’essere giustificato nasce da una forma di “intossicazione”, con le conseguenze che noi tutti conosciamo, “l’invidia, dice il W. Shakespeare, è un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre”.
La memoria di questi avvenimenti è l’unico modo per sconfiggere l’intolleranza: ricordare quale è la posta in gioco diventa un totem, ma anche un tabù, quale limite da non oltrepassare per evitare il disastro.
La tolleranza richiama esplicitamente l’esigenza di una vita in comune, dove l’incontro è inevitabile, è un termine, che va inteso in senso più ampio per poter avere il significato di “accettazione” e ancor più di “rispetto”